“Il mio posto è qui”, storia di emancipazione femminile ambientata in Calabria
Una storia di empowerment femminile, di presa di coscienza, di riscatto, di autodeterminazione, in un piccolo paese della Calabria, nell’immediato dopoguerra: la storia di Marta, ragazza madre, promessa ad un vedovo più grande di lei, immersa in un’atmosfera patriarcale, trova la sua strada di realizzazione personale attraverso l’amicizia con Lorenzo, omosessuale, aiutante del parroco e organizzatore di matrimoni. Due persone che uniscono le loro solitudini, la loro autenticità, alla ricerca del loro posto nel mondo: “Il mio posto è qui” è il film (dal 9 maggio nelle sale), firmato a quattro mani da Cristiano Bortone e Daniela Porto, anche autrice del libro da cui è stata tratta la sceneggiatura, girato lo scorso anno a Gerace e in parte anche in Puglia. Ma l’ambientazione – pur fondante, ispirata a racconti reali riportati alla regista dalla madre, calabrese come il padre dell’autrice – rappresenta un’universalità, una condizione che attraversa strati sociali, luoghi, come peraltro ci suggerisce “C’è ancora domani”, cui questo film, girato precedentemente, sembra ricollegarsi idealmente, attraverso il filo comune delle tematiche trattate.
Qui l’empowerment avviene per mezzo della conoscenza, della lettura, della cultura e soprattutto del lavoro, come elemento propulsivo per il riscatto di Marta; ma anche il tema dei diritti e, in particolare, di quello al voto per le donne è molto forte in questo film, e ritorna, come una costante, come primo passo per una presa di coscienza, attiva, coraggiosa, che la protagonista mostra fin da subito, mettendosi contro tutti (con l’aiuto anche di altre donne, dalla dolce e complice suocera, la sempre straordinaria Anna Maria De Luca, all’attivista del Pci, che la spinge a studiare dattilografia). Il percorso di Marta è, in questo senso, sofferto ma lineare, dubbioso nel prendere il “la”, nello staccarsi da doveri e convenzioni, ma frutto di un’anima desiderosa di determinarsi nella sua unicità.
Un personaggio cui dà vita, con grande intensità, Ludovica Martino, che si è calata con impegno e professionalità nel ruolo, in particolare nel restituire la realtà, la verità della protagonista attraverso il dialetto e risultando davvero molto credibile. Costruendo anche un connubio perfetto – che dà altrettanta credibilità al rapporto che si crea tra i due – con Marco Leonardi, che offre un’interpretazione forte e misurata nello stesso tempo. È sui loro volti, sul percorso dei loro personaggi, sul loro mutuo aiuto nel comprendere quale sia la strada da intraprendere, che si sviluppa e si regge il film. Accompagnato da un’ambientazione sicuramente inusuale, su una ruralità fotografata nella sua essenza, su una luce volutamente naturale, rifuggendo un’immagine di patinata perfezione che, comunque, ha raramente lambito questi luoghi, a livello cinematografico. Una scelta degli autori che riporta all’epoca della storia e tende a sottolineare l’ombra della sofferenza e, di contro, la luce di paesaggi che affascinano, nella natura incontaminata, gli unici posti in cui Marta si sente libera. Ambientazione che, tuttavia, va letta ed evoca una visione universale, uno sguardo su una problematica che riguardava – e purtroppo ancora riguarda – tutto il Paese, come ci ricorda non solo il film di Paola Cortellesi. Una visione che il film propone, appunto, da una prospettiva diversa (in cui, però, forse alcune storie collaterali, come il rapporto tra le sorelle, avrebbero meritato uno sviluppo maggiore), e con un linguaggio cinematografico più diretto, in cui anche l’uso del dialetto – spesso utilizzato al cinema come elemento aggiuntivo o folkloristico, che a volte rischia di far cadere nel macchiettistico – diviene invece elemento essenziale di racconto, non tanto iperrealistico, ma naturale.
Calabria, dunque, che ritorna nella lingua utilizzata, nell’ambientazione – pur se, come si diceva, in un’ottica universale, come spesso accade nel rapporto tra cinema e territori, in cui i luoghi possono avere la funzione di rappresentare temi e storie che superano confini ed epoche – e anche nel cast, con la presenza di interpreti calabresi, tra cui, oltre i già citati Leonardi e De Luca, anche Francesco Aiello, nel ruolo di Enrico, Saverio Malara (Don Antonio) e Francesco Arcudi (Davide).